Intervista a Beppe Marotta

Mi sono avvicinato al calcio da bambino, in modo quasi naturale. Abitavo a 200 metri dallo stadio della mia città, Varese, e quando avevo sei o sette anni la squadra era in Serie A. Era il Varese di Anastasi, per capirci, quello dove sarebbe approdato anche Bettega. Seguivo gli allenamenti tutti i giorni e il mio sogno, fin da quel momento, era diventare dirigente. Sì, giocavo, ma come calciatore mi sono fermato alla Primavera, senza rimpianti.

La mia storia calcistica sembra una piccola fiaba. Ho iniziato a fare il dirigente che avevo le braghette corte: avevo appena finito il liceo classico e cominciai a lavorare nel settore giovanile del Varese, per diventarne il responsabile nel giro di un paio d’anni.

Altri tempi: c’era il presidente, che comandava, e poi il direttore sportivo, che spesso era un ex giocatore, e un segretario. E basta. Eravamo lontani anni luce dall’attenzione di oggi per i bilanci, anche perchè erano tutti’altro che corposi. Con l’evolvere del calcio sono evoluto anch’io, acquisendo una professionalità che mi ha permesso di maturare competenze che mi hanno consentito di diventare, alla Sampdoria, amministratore delegato. E di essere ora alla Juve.

Allodi amava dire che il calcio è l’unico ambiente dove un muratore può un giorno diventare architetto. In parte è vero, ma io sono convinto che un buon dirigente debba avere anche competenze e professionalità specifiche. Un dirigente sportivo deve gestire un budget e conciliare esigenze di bilancio con i risultati. E queste sono cose non banali.

Le risorse umane sono un elemento strategico. Il mio stile è semplice: devi dare motivazioni a tutte le componenti della società. Per usare una metafora, a un purosangue che non ha vogllia di galoppare preferisco un robusto cavallo da traino. Una delle prerogative di un dirigente, e anche di un allenatore, è gestire le risorse umane. Non dimentichiamolo.

Uno dei primi episodi importanti è stata la trattativa con Boniperti per la cessione di Casiraghi. Eravamo alla fine degli anni Ottanta e ricordo l’ingresso nel suo ufficio alla Sisport. Mi viene in mente l’emozione di quell’incontro: il presidente era una leggenda e sentivo tutto il peso del carisma di un uomo che aveva fatto la storia del calcio. Nella sua stanza c’era un quadro in cui era incorniciato un calzettone della Nazionale tagliato da un intervento dell’avversario. Era il simbolo della tenacia che serve per vincere, mi disse.

Il mercato è la parte finale di un lavoro che deve essere fatto durante l’anno: si parte dalla valutazione delle risorse che si hanno a disposizione e poi si va a puntellare la squadra in base alle lacune o alle esigenze che vengono evidenziate dal rendimento della stagione. E quindi il mercato non è un fatto di stagione, è un processo. Richiede preparazione e programmazione.

Il colpo di mercato che mi ha toccato di più? Cassano preso a titolo definitivo dalla Sampdoria a costo zero. Cassano è uno dei giocatori più forti del mondo, difficile da gestire, ma di grandi qualità.

Sono convinto, e la mia storia professionale lo conferma, che il settore giovanile sia un asset fondamentale di una moderna società di calcio e la Juventus ha tutte le intenzioni di continuare su questa strada, investendo e dando fiducia ai suoi ragazzi.

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